In principio fu questo: la presentazione nei primi di febbraio del calendario 2015 delle Tavole Accademiche. Mentre scorrevano sullo schermo facce di chef stellati e non, internazionali o a km zero, suscitando nella sala gremita brusii ed exploit paragonabili alla presentazione della line-up del Primavera Sound, io, chinata sul mio smartphone, googlavo puntualmente i nomi. Pura verifica, prima di dichiarare la mia benedizione con espressioni accomodanti.
Ad interrompere il meticoloso lavoro di recupero dei deficit conoscitivi è il palesarsi tra le slide di una fisionomia a me stranamente nota.
Previsto tra il 15 e il 19 di giugno, Roberto Flore. La reazione di entusiasmo e stupore può facilmente essere paragonata al più noto sketch della Loren durante la cerimonia degli Oscar, ed esclamo: “Roberto!”
Roberto è attualmente l’head-chef del Nordic Food Lab (NFL), quella che sembra una cucina alchemica ma che è in realtà un laboratorio scandinavo che supera il concetto di avanguardia. Fondata da Renè Redzepi e Claus Meyer nel 2009, è un luogo dove i discorsi gastronomici attualmente più dibattuti vengono messi sotto il microscopio, i denti e l’incredibile intelligenza critica dello staff. Le ricerche indagano quell’area della gastronomia dei paesi del Grande Nord che sta tra l’abbandonato e l’inesplorato, operando con un métissage di tecniche grazie al contributo apportato della differente provenienza geografica e di formazione del team. Al NFL ci si chiede quindi se abbia senso sul piano organolettico ed etico riprendere delle tradizioni alimentari perse o avvalorare quelle mai avute e, da qui, prende forma la fase sperimentale. Oltre ad importantissimi risultati raggiunti nelle alte fermentazioni, si continua a lavorare nell’ambito delle specie invasive (come è stato per le meduse) e dell’entomofagia (si, avete capito bene, degli insetti) e si condivide tutto, tanto i risultati quanto i fallimenti.
Campanilismo a parte, Roberto è prima di tutto sardo, prima ancora di Seneghe, un paese in provincia di Oristano, che è anche il mio paese. Presto svelato l’arcano della mia conoscenza.
Non posso quindi evitare con lo stesso brio di comunicarglielo, che l’ho visto sullo schermo dopo Michel Bras e prima di Yoji Tokuyoshi, il mio compaesano, e un gran sprecarsi di lodi e aspettative. Tra le chiacchiere virtuali salta fuori del suo prossimo intervento previsto ad Identità Golose a Milano. Evento enogastronomico ideato da Paolo Marchi nel 2004, è ormai approdato come appuntamento internazionale a Londra e New York. É una kermesse dedicata alla cucina d’autore che favorisce scambi e confronti tra i gli addetti al settore riuscendo in contemporanea a democratizzare la conoscenza del processo di costruzione di un piatto gourmet verso un pubblico gastronomicamente più laico. Ci si rende facilmente conto buttando un occhio al programma che quello è un evento che pullula di chances. Roberto parla di un free-pass, io accetto e comincio a saltare di gioia.
Il 10 febbraio sono a Milano, nello spazio del MiCo. Alla reception mi referenzio come accreditata, mi mettono un bracciale verde fluo e con il braccio teso verso le ripetute barriere di butta-dentro/fuori riesco ad accedere al blindatissimo evento. L’area degli stand è ridotta e le eccellenze proposte si sovrappongono in un walzer ipnotico di vassoi colmi di assaggi. Il mio bracciale fluo mi concede di partecipare alle conferenze della Sala Blu, dove, per quel martedì pomeriggio, sono accorpati gli interventi sotto la categoria “Identità Estreme”. Gli ospiti articolano il loro contributo con parole e gesto, raccontando all’interno dello show-cooking le proprie filosofie gastronomiche no-limits.
Roberto si muoverà lungo le stesse coordinate, presentando con grande coinvolgimento il lavoro di ricerca svolto dal NFL e cominciando a mettere le mani in pasta. Toglietevi però dalla testa l’idea di uno spadellamento in diretta. Quello che le telecamere catturano saranno immagini di una cucina altra, altamente concettuale ma radicalmente terrena. Ma andiamo per ordine: suggerendovi di tenere a mente le due key-words di “concetto” e di “terra”, ciò che invece io farò sarà tentare di procurarvi qualche suggestione.
Nella foresta scandinava io, ad esempio, non ho mai avuto occasione di passeggiare. Roberto ha portato me ed un’intera platea a fare foraging nei boschi del Nord pur restando tutti seduti sulle nostre sedie in via Gattamelata, a Milano.
Il concetto è quello dell’evocazione fedele. Chi cammina per quei sentieri, dice, percorre un’esperienza sensoriale che assorbe senza filtri tutti gli elementi presenti: colori, forme, odori, consistenze. Il gusto non viene escluso e anzi diventa a posteriori il canale sinestetico per ripercorre le stesse sensazioni: a “Segnali d’Identità”, titolo del suo intervento, questa è l’esperienza che ha proposto:
C’è la terra del sottobosco, un miracolo gastronomico; ci sono foglie e bacche a connetterci in forma cromatica immediata al luogo; c’è il cuore del capriolo, accordo sinfonico tra dolce e selvaggio; c’è l’essenza di castoreo e quella pura di formica, una nebulizzazione che guida verso il distante e l’esotico.
Non è solo un piatto esteticamente sublime, una celebrazione post-moderna Sturm und Drang. É un recipiente di temi forti come la biodiversità. Parliamo della formica rufa e del castoro. La prima, una specie a rischio d’estinzione da cui viene estratta l’essenza che sprigiona nell’aria della foresta in caso di pericolo; il secondo, un animale che ha rischiato lo stesso epilogo perché cacciato unicamente per la sua pelliccia e che, allo stesso modo, libera tramite delle ghiandole una sostanza nei territori da marcare. Due segnali di comunicazione chimica, uno di difesa e uno di avviso, di cui Roberto è diventato il portavoce.
Il cibo è dove e il dove è tutto ciò che questo comprende, superando i pregiudizi spesso infondati del gap tra il buono organolettico ma cattivo culturalmente, la volontà è di dare la giusta dignità agli alimenti e di indagare la questione estrema del “quanto siamo onnivori?”.
Insomma, oltre all’istintivo slancio conterraneo alla notizia della sua vicina presenza all’Unisg, è arrivata un’ulteriore e diretta conferma di ciò che già sapevo: Roberto Flore merita attenzione, nell’ascolto e nella degustazione del suo lavoro. Ha tanto da dire e, qualsiasi sia la forma scelta, il suo messaggio arriva e il contenuto è forte.