Approfondimenti

Se il cibo è arte, allora la cucina è arte… e gli chefs sono artisti!

La Filosofia si occupa di arte da sempre, ma un modo per metterle in relazione in modo originale è il dibattito attorno al cibo. Al Convegno tenutosi a Pollenzo va l’ormai accertato merito di aver lanciato la sfida sulla possibile convergenza delle tre sfere. L’argomento era sicuramente vasto e insidioso. Si sono trovati a confrontarsi sullo stesso piano personalità diverse, ciascuna in rappresentanza di un aspetto specifico della materia. Sono intervenuti chefs, filosofi, semiologi, giornalisti gastronomici, esperti d’arte. A me spetta qui l’arduo compito di tirare le somme di questi dibattiti, che, come prevede la formula di ogni convegno, non si proponevano certo di giungere a dogmatiche conclusioni, ma piuttosto di insinuare il dubbio e il dialogo su questi temi. Non si è dunque parlato di quale sia il rapporto cibo-arte in assoluto, ma su come i relatori, in quanto portavoci dei loro ambiti di studio e di analisi, credono che questo rapporto debba essere affrontato.

Massimo Bottura è forse il cuoco italiano che più lavora pensando esplicitamente all’arte. Appropriandosi di una delle più celebri frasi di Lucio Fontana, ha emblematicamente sottoscritto l’accostamento tra cibo e arte: “Le arti seguono l’evoluzione del loro tempo, perché sono specchio dell’intelligenza del mondo”.Il concetto di arte è sicuramente cambiato nel corso dei secoli, dai Greci che la volevano intimamente legata alla tecnica fino al Romanticismo, epoca in cui esplode la concezione della genialità e dell’originalità senza regole. Se dunque la valutazione su cosa fosse da considerarsi o meno arte è sempre stata oggetto di cambiamento, certo è che l’arte è da sempre stata capace di farsi portavoce dei valori della propria epoca. E’ successo anche nei decenni delle Avanguardie, che volevano seppellire sotto le macerie dell’epoca precedente quei valori e quei canoni giudicati superati, ma proponendone a loro volta comunque di nuovi. Anche l’arte contemporanea, seppur solo apparentemente più libera che in passato e quasi senza regole, non ha smesso di essere manifesto dei principi del suo tempo, il nostro. Pure il cibo è oggetto di altalenante considerazione, ma innegabilmente rispecchia la sua società, con le sue convinzioni e la sua etica. Oggi la cucina è “responsabilità” sostiene Bottura, perché nei suoi piatti veicola messaggi, come l’arte, e deve assumersi le responsabilità delle conseguenze. Non basta certo questa labile somiglianza a porre in relazione arte e cibo, ma è sicuramente un punto dal quale partire.

L’arte in quanto arte è da sempre associata ai sensi, ma anche il cibo chiama in causa i nostri. Come ha spiegato Ryan Bromley, nel suo intervento sulle potenzialità della partecipazione del cibo all’arte oggi, il gusto è sempre stato l’unico senso escluso dalla pratica artistica. Nella Grecia antica si proponeva già una gerarchizzazione dei sensi che relegava il gusto in una posizione di inferiorità. Nell’opera d’arte il concetto del gusto è irrilevante, e questo è un limite per l’arte che dovrebbe invece secondo lui intendere il gusto oggi come un proprio “ingrediente”. Gli sforzi in questa direzione non stanno mancando grazie ad autori come Rirkirit Tiravanija, Marina Abramovic’ e altri. D’altro lato e in parallelo, oggi si cerca di superare la visione che la cucina si limiti solamente a richiamare i sensi, perché in ogni esperienza artistica ci deve essere molto di più. Attraverso i sensi riconosciamo il valore di un’opera culinaria, distinguiamo le sue differenze, diamo giudizi tanto più precisi e raffinati quanto più i nostri sensi sanno leggere correttamente il piatto. In un piatto, come in un’opera d’arte c’è tuttavia però dell’altro.

La cucina è oggi più che mai idee. Un’opera d’arte, più che su tecnica e valori, si fonda su idee. Massimo Bottura ha cercato proprio di spiegare questa equivalenza nel suo intervento. “La cucina rende edibili le idee, come l’arte le rende visibili e tangibili”. L’arte rende visibile l’invisibile, ed è proprio quello che cerca di fare anche un piatto. Dietro un’opera d’arte c’è volontà di cambiare, intenzione di trasformare quello che si è creato: come per l’orinatoio di Duchamp, così oggi per la cucina creativa o tecnoemozionale, che cerca per esempio di esprimere il gusto dell’Oceano in un piatto. Saper trasformare un oggetto che non nasce come arte in un’opera d’arte è una grande idea, una grande sfida ha detto Bromley. E’ anche, e ancora, una grande provocazione.

L’arte è emozione e la cucina, ma anche il singolo prodotto che noi mangiamo così come lo troviamo in natura e non lavorato, può e vuole essere emozione. L’arte è capace di evocare e rievocare continuamente emozioni, e certo non si può dire che quando noi mangiamo un piatto non possiamo sentire lo stesso. Le letteratura e il cinema sono pieni di esempi – da Proust e le sue madelaines ad Anton Ego di Ratatouille – di rievocazioni di emozioni dimenticate, che si ripropongono tali e quali ad ogni assaggio, anche a distanza di tempo. Forse è questo quello che oggi noi più di tutto cerchiamo nel cibo, “scegliamo di mangiare sempre meno per sfamarci e sempre più per emozionarci”(Ryan Bromley). Incredibilmente queste emozioni sono diverse per ciascuno di noi, a seconda della nostra cultura, del nostro vissuto, della nostra sensibilità. La parola chiave dell’intervento di Davide Scabin è stata “empatia”, perché la cucina è empatia, perché i suoi gusti tendono ad affascinare soprattutto le persone che condividono un retroterra comune, per esempio quello italiano.

Il cibo ha goduto di scarsa considerazione nella scienza e nella filosofia soprattutto per quanto riguarda il tema del piacere. C’è sempre stata la consapevolezza che per la specie umana il cibo non sia mai stato solo un bisogno primario. L’uomo mangia, non si nutre e basta. L’uomo è in grado di pensare al cibo, di ragionare sul cibo e desiderarlo. Un’azione così ordinaria e condivisa con le altre specie animali non poteva però assumere valore alto; e così, da Platone e moltissimi altri pensatori, fu considerata con distacco e disapprovazione. Si era già consci dunque di quale potere avesse il godimento fisico derivato dal cibo nell’uomo. Dante relega i golosi all’inferno, ma oggi noi vediamo questi peccatori in modo benevolo e compassionevole. Si tratta sicuramente di piacere diverso, ma non vogliamo considerare piacere anche quello che l’arte stessa genera nella sua fruizione? Sto parlando di quello stadio estremamente volubile che si raggiunge quando noi contempliamo l’opera e cerchiamo di comprenderla penetrandola a tal punto che essa si mostra a noi nuda e indifesa. Non è forse una sorta di immenso piacere quello che provò Stendhal?

La concezione estetica occidentale accosta l’idea del piacere estetico alto solo all’esperienza artistica legata alla percezione visiva e uditiva (pittura, scultura, cinema, musica, ecc.) L’immediatezza della percezione del gusto lo renderebbe di conseguenza effimero, perché la bocca distrugge ciò che viene ingerito. Affermare che il cibo una volta mangiato scompaia è sicuramente vero ma è limitativo, così come affermare che l’arte, dato che “resta”, per questo è arte. Il presente dell’arte contemporanea mette continuamente in discussione questo paradigma e ci porta a familiarizzare ad esempio con performance che restano solo come filmati, come potrebbe restare la foto di un piatto, ma che nel loro essere hanno l’impossibilità di replicare la sensazione immediata che hanno saputo evocare la prima volta. Damien Hirst, consacrato uno dei massimi e più quotati artisti degli ultimi anni, realizza tra le sue opere più famose animali in formaldeide destinati irrimediabilmente a decomporsi un giorno e a non esistere più. Le Avanguardie hanno iniziato un processo di distruzione materiale dell’arte. Su un piano più teorico, l’arte contemporanea è un’arte veloce e affamata, come la moda passeggera per una qualche cucina straniera, rapida come i fast-food. L’arte contemporanea non ha più manifesti. Velocità ed eternità non sono però due opposti. Allora, se potrà restare nella nostra memoria la sensazione provata davanti una performance di Yoko Ono, perché non potremo allo stesso modo farci stregare eternamente dall’emozione lasciataci dall’assaggio di un piatto? Come affermato da N. Perullo, nel suo intervento in cui ha proposto dieci possibili tesi per la cucina come arte, la cucina è arte quando si libera dalla gabbia della percezione visiva, perché il cibo non svanisce ma si trasforma e ci trasforma. La cucina non è forse per molti aspetti una performance?

Come G. Marrone ha spiegato, abbiamo creato un linguaggio dell’arte per cercare di spiegarcela più tecnicamente. Abbiamo creato un linguaggio della gastronomia per fare lo stesso. Le domande che ci poniamo sono le stesse, sullo chef-artista e sul suo ruolo, sull’opera e sulla sua funzione, se sia o meno un’opera d’arte totale, e qualora non lo sia quali siano al suo interno le arti primarie e su quali siano quelle secondarie. Per chi ancora avesse dei dubbi sul rapporto ambiguo, e quasi blasfemo, tra arte e cibo, questa ne è un’ennesima prova.

Un’opera d’arte è per moltissimo tempo scaturita della committenza, rendendo questa inscindibile dall’opera. Lo è sempre stato e lo è anche oggi, anche se a noi sembra invece che non sia più così. La committenza sceglie il chi, il come, il dove, il quando di un’opera. La cucina segue gli stessi imperativi. Starà poi all’artista, o allo chef,a trasformare l’incarico ricevuto da qualcuno in una vera opera d’arte. Al Convegno, gli chef intervenuti hanno dato risposte diverse alla domanda se la loro cucina sia considerabile arte. Davide Scabin ha usato una sua definizione precisa affermando che, secondo lui, i cuochi non sono artisti, che non è chiaro se la cucina sia arte, però nell’atto di cucinare si può raggiungere un’espressione artistica. Un piatto è un universo difficile, racchiude moltissime cose, oltre a quelle già citate. Come per un artista che non è estraneo al suo tempo e al suo spazio quando dipinge, uno chef racconta nel piatto la sua personalità non scissa dal luogo dove si trova, dai suoi sentimenti in quel momento, dalle sue intenzioni più o meno realizzate, dalla sua giornata. L’arte e la cucina “producono” opere. Il piatto è l’esito di un processo creativo, lo chef è un inventore, che solo se ha qualcosa in più degli altri è anche un artista. Ogni vero artista del passato, ma anche del presente, deve affondare le sue radici nella conoscenza approfondita della tradizione, perché solo la storia di quello che l’ha preceduto sarà la linfa che alimenterà il suo genio e la sua originalità. Non c’è artista che nei suoi quadri non dimostri di aver fatto tesoro delle opere degli altri prima di lui, di aver imparato dai maestri, di avere una conoscenza che sconfina oltre la sua materia,di avere cultura. Come Bottura ha più volte ribadito, si parte dalla tradizione per innovarla. Lui ha citato Ai Weiwei che distrugge un vaso millenario per dare vita a qualcosa di nuovo, io cito il più comune Picasso che prima di spezzare le figure aveva dimostrato di avere un’abilità nel disegno fuori dal comune, o un impressionista qualsiasi che nel disegnare le acque viola o gialle dimostrava di averle osservate a tal punto da coglierne le differenze sotto luci diverse. Così lo chef deve conoscere i classici della tradizione per ispirarsi e, per usare un termine oggi spesso abusato, per “ rivisitarli”. Ciò non significa che le correnti artistiche, come dice un famoso critico d’arte, siano dei virus che si passino per contagio di persona in persona, di decennio in decennio, così come non lo è la cucina e non lo sono le sue ideologie e le sue tendenze. Non significa nemmeno che quando Ferran Adrià afferma che creatività significa non copiare, abbia torto. La differenza, spero di averla spiegata, è molto più sottile.

Ho fin qui fatto attenzione a non dare una definizione precisa e univoca di arte. Da molto tempo i filosofi hanno smesso di cercare una risposta definitiva alla domanda “che cosa è arte”, infatti. Ho quindi semplicemente cercato di accostare sostantivi universalmente attribuiti alla sfera dell’arte per provare a capire fino a che punto potessero rientrare anche in quella del cibo. Preciserei che il rapporto tra cibo e arte fin qui descritto esclude invece il ruolo del cibo nell’arte, perché un’opera d’arte che rappresenta un cibo non ha valore in quanto rappresenta quel cibo ma perché, attraverso il cibo, emoziona o colpisce. Il cibo, come nella performance di Andrea Salvetti, non è il fine, ma uno strumento per fare arte.

Come N. Perullo ha spiegato, più che parlare di somiglianza tra arte e cucina, come fin qui invece ho fatto, sarebbe più giusto usare il termine “contaminazione”. La cosa forse più straordinaria della cucina è che acquista valore, ed è vissuta al meglio, nella convivialità. Non si può ignorare il contesto in cui noi mangiamo quel piatto, perché “la cucina è un’arte ambientale” e , sempre con le parole di Perullo, la cucina potrebbe richiedere un apprezzamento diverso, quello della percezione distratta, come l’architettura. E’ incredibilmente vero.

Dopo aver srotolato a mio modo la matassa delle relazioni tra arte e cucina, senza volutamente entrare nell’altrettanto insidioso campo dell’equazione, vera o falsa, di arte, artigianato, design, cucina, verrebbe spontanea una domanda, scomoda, e anch’essa da sempre senza risposta: l’arte è o non è per tutti? E la cucina, il cibo lo sono?

L’arte è cambiata e la cucina sta cambiando. I tempi sono maturi per poter leggere la seconda con le chiavi di lettura della prima. Dal Rinascimento l’artista si è liberato dalla sua gabbia di semplice esecutore materiale per rivendicare l’originalità e la sua identità, iniziando per la prima volta a firmare le proprie opere. La nostra epoca concede lo stesso agli chefs, non più semplici cuochi. Concede anche a loro di firmare le loro opere, e la firma è il primo importante riconoscimento del proprio lavoro, che precede quello di opera d’arte.

 

Anna Rivaletto

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