Approfondimenti

Quanto importante è il respiro del vino?

Luigi Moio, ordinario di Enologia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II si racconta e ci racconta il suo ultimo libro “Il respiro del vino” edito da Mondadori.

In realtà è più di un semplice libro, è un vero e proprio saggio scientifico nel quale l’autore ha voluto “coniugare l’apparente freddezza della chimica con l’accogliente calore della convivialità, intimamente legata al vino”, come lui stesso scrive nell’Introduzione.

Divulgazione prêt-à-porter o rigore scientifico? Grande pubblico di appassionati (enofighetti compresi) o solo ed esclusivamente colleghi scienziati? Il suo è un saggio scientifico a metà, rigoroso, ma romanzato, tratta di 4-metil-4-mercaptopentan-2-one, ma con metafore e raffigurazioni in grado di rendere più accessibile ciò che solo apparentemente risulta complesso.

“Un vino che non ha profumo non è altro che una semplice dose d’alcol” (p.11)

Nell’epoca dell’instagrammata compulsiva di etichette e del bere certe bottiglie solo perché di tendenza, l’olfatto appare un po’ come un senso dimenticato; è evidente però che senza naso non c’è gusto, che i sapori che possiamo esplorare con il sistema gustativo sono il risultato di un’interazione sinergica con quello olfattivo.

E per Luigi Moio i profumi sono diventati una vera ossessione: come catturare le molecole odorose una volta raggiunto l’epitelio, come archiviarle rigorosamente nella nostra memoria olfattiva, come rendere visibile ciò che è invisibile.

Per rispondere a questo quesito è ricorso alla gascromatografia grazie alla quale è stato possibile separare le molecole volatili odorose dagli altri costituenti del vino e proseguire con un’analisi sia fisico-chimica, sia sensoriale, dando voce sia al naso artificiale sia a quello biologico.

“Il vino racchiude in un solo bicchiere l’odore del mondo intero”(p.13), ci dice, e in effetti a ben pensarci il profumo di un vino ci parla di terroir, di condizioni pedoclimatiche, di paesaggi, di persone, di varietà di uva…

Ma perché alcuni calici “profumano” di più e sono più facilmente riconoscibili di altri?

Senza dubbio è più semplice studiare e definire il profilo olfattivo di varietà aromatiche come i Moscati e il Gewürztraminer perché per loro stessa natura contengono nella buccia e in parte nella polpa, una quantità maggiore di terpeni (o isoprenoidi) responsabili dell’aroma primario di un vino.

Secondo l’immagine dell’orchestra che genera una musica fatta di note olfattive, questi sono denominati da Moio “vini solisti”: Pavarotti quindi spingerà come un Moscato e avrà la potenza di raggiungere vette “odorose” normalmente inaccessibili.

Discorso a parte meritano invece i cosiddetti “vini orchestrali” frutto di uve non aromatiche come Aglianico e Verdicchio in cui il profumo percepito è il risultato di un equilibrio sinergico tra tutte le molecole odorose, senza che nessuna prevalga sull’altra: gli ACDC spingono come un Nebbiolo, ben più forte di Pavarotti, ma è tutto merito della voce di Brian? Che cosa ne sarebbe senza le chitarre di Angus e (ahimè davvero) di Malcolm?

Tutto questo per dire che fare vino con uve non aromatiche è senza dubbio più complesso, è obbligatoria la ricerca della purezza sensoriale e le condizioni pedoclimatiche e territoriali andranno ad infuire, di anno in anno, in maniera più evidente sul profilo olfattivo finale. Ma noi, da italiani veri, “stiamo con i vini orchestrali” e lasciamo volentieri i solisti ai nostri cugini d’Oltralpe…

La presentazione in pillole del saggio si chiude e il microfono passa prima a Maurizio Gily che chiede chiarimenti sull’uva glera e sull’Asti Docg Secco e poi agli studenti di Pollenzo; quelli un po’ chiusi nella loro bolla, quelli abituati a sentire la stessa campana, ma anche quelli curiosi e pronti a riflettere di fronte a quelle campane così diverse, guidati da spirito critico e umiltà.

Ed è proprio una critica costruttiva e coinvolgente quella che si è accesa nell’Aula Magna dell’Università… Si è parlato del ruolo controverso dei lieviti in fase fermentativa, dell’influenza reale o effimera che esercitano sul profumo finale del vino, della moderna rivalutazione dei lieviti indigeni e del corrispettivo business della case produttrici di lieviti selezionati.

Per Moio è no: il lievito non influisce sull’aroma del vino e l’omologazione olfattiva di cui tanto si parla negli ultimi tempi sarebbe pertanto improbabile.

Non applaudire, storcere il naso in maniera impassibile e acritica, rimanere ancorati alle proprie certezze chiare e distinte sono atteggiamenti piuttosto incosistenti di fronte a una personalità di questo calibro che ha dalla sua la materia enologica e l’obbligo di doverla predicare per com’è anche qui a Pollenzo, anche davanti ai più scettici.

La vera risposta? Intererrogarsi, interrogarsi sempre, perché solo i dubbi possono permetterci di comprendere e poi… Perché avere un solo maestro? Perchè fermarsi alla superficie delle cose?

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