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Nero come il Latte. Un pasticcio all’italiana nel settore lattiero caseario…

Quando avevo 10 anni, arrivò alla mia squadra del cuore un calciatore uruguaiano molto forte. Per tutti era “El Chino” per via dei suoi lineamenti orientaleggianti, ma ricordo che scherzosamente qualche mio amico lo aveva soprannominato “Recobas”. Era il 1997 e di politica noi non sapevamo niente, ma gli schiamazzi dei Co.S.P.Lat., meglio noti appunto come “Cobas del latte”, avevano raggiunto anche noi, che pensavamo il mondo fosse solo una sfera a scacchi bianchi e neri.

Effettivamente le proteste furono numerose e molto scenografiche, i telegiornali del tempo mostravano immagini di spargimenti di liquami, mucche portate in trionfo ed enormi trattori ad occupare strade, autostrade e aeroporti. È così che la maggioranza degli italiani ha cominciato a sentir parlare di quote latte, catturata dagli eccessi trasmessi dal tubo catodico. Nel resto d’Europa invece, se ne parlava già da più di 10 anni, quando questo regime venne introdotto modificando drasticamente il settore lattiero-caseario del vecchio continente.

La vicenda iniziò nel 1983 quando l’allora CEE, antesignana della Comunità Europea, stabilì che per limitare la produzione di latte, il cui surplus stava portando a un crollo dei prezzi, occorreva dare dei limiti ai paesi aderenti al mercato unico con delle quote di produzione nazionali. Così il 31 marzo del 1984 entrò in vigore il nuovo sistema, che all’Italia assegnava una produzione annua di 8.823.000 tonnellate di latte, non una goccia di più, pena un prelievo supplementare, ovvero un ulteriore tributo.

Il nuovo corso per lo Stivale fu però fallace ancora prima di iniziare: questa quota doveva corrispondere al quantitativo di latte venduto dai produttori nell’anno 1983, ma i dati ISTAT usati per il calcolo risultarono molto sottostimati, probabilmente a causa di un’alta percentuale di “nero”, nonché della elevata frammentazione di un settore difficile da mappare correttamente. Il vero problema fu però la reazione delle istituzioni italiane alle decisioni comunitarie: sostanziale immobilità. La quota venne ritenuta errata, ma anziché adoperarsi per stimare le vendite di latte in maniera più corretta ed ottenere un quantitativo maggiore di produzione, il governo preferì tranquillizzare i propri allevatori sostenendo che l’Italia non avrebbe mai dovuto pagare multe proprio in virtù dell’errata quota che le era stata assegnata.

La situazione rimase invariata fino al 1996, quando Bruxelles si fece viva materialmente, reclamando circa 4,4 miliardi di euro per le eccedenze di latte prodotto. La relativa riscossione saltò per anni, insieme ai governi in carica, risolvendosi nel classico pasticcio all’italiana: pochi soldi restituiti all’Europa e provenienti dalle casse centrali del paese anziché da quelle degli “splafonatori”, ovvero un aiuto di stato ai rei produttori, che a sua volta ha generato ulteriori sanzioni. Il tutto ancora non pagato.

La sottostima della produzione di latte ha inoltre innescato un pericoloso mercato delle quote, che ha portato tanti allevatori ad indebitarsi per comprare ulteriori quantitativi di produzione e poter continuare regolarmente il proprio lavoro, ma ha anche costretto tante piccole realtà alla vendita totale delle proprie quote, facendo diminuire di un sesto il numero delle stalle e portando ad una produzione sempre più industriale e standardizzata, con un inevitabile abbassamento della qualità del prodotto finale. Non certo un bel modo di presentarsi all’alba di una nuova era, con un cambio di regime produttivo destinato a riscrivere le gerarchie dei paesi in base ai principi del libero mercato.

Il 31 marzo 2015 è infatti terminato il sistema delle quote, ma l’Italia sta ancora piangendo sul latte versato. Da un lato deve ancora risolvere un problema interno di recupero crediti, per riportare equità fra i produttori, facendo pagare chi non ha rispettato le quote e ha accumulato un ingiusto vantaggio verso gli altri allevatori. Dall’altro lato il paese si trova a dover fronteggiare le insidie di un mercato libero che non tiene conto delle differenze geografiche e di scala fra i vari produttori europei. Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia, sottolinea che: «la liberalizzazione della produzione richiede un’attenzione sul fatto che in Europa ci sono realtà che producono con bassi costi e quindi riescono a mettere fuori mercato aziende che operano in contesti più virtuosi ». Il libero mercato e la dinamica del profitto applicati al cibo causano la svalutazione del ruolo sociale dell’uomo produttore. Ragione per cui, prosegue Pascale: «va tenuto conto delle micro economie delle aree svantaggiate e di montagna, spesso garanti delle tradizioni locali e custodi del territorio. Queste realtà non possono competere in un sistema di libero mercato. Che ne sarà quindi del modello sociale sviluppato negli anni in quei luoghi? Ne deriva un reale rischio di chiusura e scomparsa scongiurabile solo con adeguati strumenti di tutela da mettere in campo».

latte alpeggio

Purtroppo però il panorama produttivo italiano non è più incentrato su piccole virtuose realtà, ma è dominato da grandi allevamenti di pianura, dove le vacche sono perennemente recluse e nutrite a mangimi producendo un latte privo della sua originaria identità e omologato alle assai più economiche alternative degli altri paesi. Un latte di scarsa competitività.

Recentemente ci sono state grandi proteste volte a bloccare il latte provenienti da oltre il confine nazionale, si è invocata un’italianità delle produzioni e anche il MIPAF (ministero delle politiche agricole e forestali) nel suo piano per il rilancio del settore, sembra concentrarsi molto sul rimarcare l’eventuale provenienza nazionale del latte. L’idea è ovviamente condivisibile, soprattutto perché attualmente le leggi comunitarie non prevedono l’obbligo di specificare in etichetta il luogo di origine del latte venduto o trasformato, eccezion fatta per i prodotti DOP e IGP che godono di un disciplinare specifico. Ma siamo sicuri che questo sia sufficiente a garantirne la qualità ? In paesi come l’Irlanda l’80% del suolo agricolo è dedicato al pascolo, il bestiame rimane all’aria aperta fino a 300 giorni all’anno ed esiste un programma nazionale – Origin Green – che si sta occupando di conciliare la qualità della produzione con il rispetto del territorio e il mantenimento di elevati standard di benessere animale. Perché mai un marchio 100% latte italiano dovrebbe essere garanzia di un prodotto migliore ? L’Italia, prima di alludere all’eccellenza tipica del made in Italy bollandosi con un marchio tricolore, dovrebbe ritrovare un’identità di prodotto e ripristinare una qualità che motivi all’acquisto e giustifichi una differenza di prezzo con il latte di altri paesi.

La retta via è un radicale rinnovamento delle metodologie produttive. Ma la strada da percorrere dovrebbe parallelamente mirare ad ottenere specificazioni in etichetta che segnalino queste differenti pratiche di produzione del latte, evidenziando la tipologia nutrizionale delle bovine e le tecniche di allevamento, esprimendo quindi il grado di benessere animale. Non tanto per il loro rispetto, ma più per l’evidente differenza di prodotto che ne deriva e per rendere maggiormente consapevole il consumatore nel momento dell’acquisto. L’esempio da ricalcare è ciò che l’Europa ha già fatto riguardo alle uova: nel 2004, dopo anni di campagne, l’Unione Europea ha introdotto l’obbligo di etichettatura in base al metodo di produzione distinguendo fra uova da allevamento biologico, da allevamento all’aperto, da allevamento a terra e da allevamento in gabbia. In questo modo la produzione di uova da galline allevate all’aperto è nettamente aumentata, con picchi del +57% in Austria e Germania e significative crescite anche in Italia, Regno Unito e quasi tutti gli altri paesi europei.

La qualità è spesso stata la chiave di volta di molti prodotti italiani. Nella burrasca del libero mercato, ripristinarla sarà necessario per indirizzare il timone sulla rotta del successo e non naufragare in bianche spume di latte.

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