Qualcosa, da terra, si era imbarcato nel suo cuore,
aprendosi un varco fino alla sua coscienza di uomo.
(Francisco Coloane, La scia della balena,
Parma, Guanda, 1962, p. 235).
Che oggi sia un grande giorno per l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche è cosa certa. Che Ermanno Olmi, maestro di cinema ma, soprattutto, maestro di vita, abbia accettato di essere parte ideale e sostanziale del nostro percorso di formazione e di ricerca ci riempie di gioia e di fiducia in un futuro che ci appare più lieve e meno incerto, perché sappiamo, d’ora in poi, di potere contare su un amico che, con profonda coscienza si interroga scientificamente sull’indirizzo di senso dell’uomo, sul suo enigma del vivere e sul suo farsi d’umanità.
Ermanno Olmi è parte costitutiva di quell’ossimorico, tragicamente felice, secolo breve appena trascorso, ma non si è fermato, arreso al limine del millennio, perché ancora ogni giorno affronta e indirizza con il prezioso patrimonio di mondo che gli appartiene, l’incerto presente. Il Novecento ha conosciuto, oltre a due guerre mondiali, che hanno sterminato universi di umanità, grandi trasformazioni che epoche diacronicamente più profonde non hanno vissuto. Il mondo contadino che, sino al trascorrere dell’ultima guerra, rappresentava oltre il cinquanta per cento della popolazione attiva della nazione, nel corso di pochi lustri, ha abbandonato le campagne per le aree industriali, la comunità per la città. Questa diaspora di una cultura, che per diecimila anni ha antropizzato, ferito e curato, lavorato e addomesticato la terra, diventa partecipe di un nuovo modo di intendere la vita, di interpretare il mondo. I ritmi spazio-temporali che avevano scandito le campagne vengono improvvisamente cancellati per conformarsi ai nuovi ritmi che la modernità, la fabbrica impone. Il tempo della natura che dialogava, in un ancora prossimo passato, con l’uomo in un rapporto di addomesticamento per molti versi sostenibile, nel giro di qualche stagione è diventato artificiale. I ritmi spazio-temporali che, nel mondo contadino, erano rappresentati e vissuti circolarmente, perché raffigurazione concreta dei miti dell’eterno ritorno, delle stagioni che incessantemente ripetono il trascorrere circolare del tempo, vieppiù tendono alla linearità (Eliade, 1949, 1956). Il flusso cronometrico della complessità sociale contemporanea non prevede più che l’uomo possa aspirare ad un ritorno delle origini. La freccia del tempo conosce un’unica razionale direzione, che registra crono metricamente l’inevitabile consumarsi del nostro essere al mondo per congedarci ad un aldilà che non conosce la memoria orale come modello collettivo comunitario del sopravvivere, come direbbe Cesare Pavese, a qualche giro di stagione (Pavese, 1950).
La comunità contadina, che conosceva i saperi orali e gestuali che l’oralità aveva incessantemente trasmesso di generazione in generazione, termina di essere l’universo di riferimento, la storia di una collettività per nutrire nuovi modelli del vivere insieme (Ong, 1982; Havelock, 1986; Goody, 2000). La città, la metropoli parcellizza l’uomo come fordizza il lavoro, un processo di alienazione, in cui l’individuo perde le sue capacità creative, i saperi materiali e immateriali. La cultura contadina, che tenta di riprodursi in città, non ha speranze di sopravvivenza, perché l’oralità che sta alla base di quel mondo magico-religioso, che ha nutrito la storia di lunga durata delle campagne, non è funzionale alla fabbrica che vede nell’uomo solo forza-lavoro utile per un nuovo modello di sviluppo, che tende ad esaltare e perpetuare le gloriose sorti dell’industria. L’operosa metropoli non può attardarsi a riflettere su tratti di collettività che appartengono al passato, ad un tempo che non scorreva solo per il lavoro, ma anche per affinare quel processo evolutivo che ha come scopo il ritagliarsi di tratti d’umanità che lo separano dall’animalità. Non sarà solo un caso quando osserviamo, con sempre più avvertita apprensione, che l’uso strumentale del tempo e dello spazio che la modernità ci ha consegnato sta limitando fortemente i processi di convivenza civile, i rapporti di affettività e, sempre più, forgiamo formularità espressive post-moderne, che rinviano ad una visione aggressiva, barbarica del vivere, per esplicitare l’anormalità dei comportamenti, lo strumentale livore urbano che caratterizza l’uomo della metropoli.
Non sorprende quindi se oggi cominciamo ad interpretare in modo coerente un fenomeno che nel corso degli anni Settanta del Novecento sembrava, anche agli occhi degli studiosi di scienze sociali più attenti, una semplice moda passeggera. Si era appena compiuto il grande abbandono delle campagne quando, a volte, la stessa generazione che aveva vissuto il tempo circolare della tradizione e si era sedentarizzata nei poli industriali dimostrava un rinnovato interesse, una nostalgia per l’orizzonte spazio-temporale abbandonato troppo affrettatamente. Abbiamo pensato tutti, allora, che questa inattesa tensione verso il passato, volta a riconoscere nuove umanità ibride, che venivano sintetizzate in originali accrocchi linguistici quali metalmezzadri, rururbani, fosse soprattutto il frutto di un torcicollo della nostalgia alla ricerca di sentieri abbandonati, dando vita a prime, incerte forme di convivenza tra un obliterato passato e un presente senza futuro.
È su questa fase di totale incomprensione di un fenomeno epocale che oggi capiamo molto meglio, che vogliamo soffermarci, perché avvengono fatti culturalmente importanti, snodi di un futuro di cui oggi, con l’intelligenza del presente, possiamo leggere più nitidamente i contorni e cogliere i frutti positivi.
Ritorniamo dunque agli anni Settanta. Un decennio in cui l’industria italiana registra la maggior espansione occupazionale. I venti dei radicali mutamenti che poi ci hanno condotto alla crisi che stiamo vivendo sono ancora un inavvertito refolo. Ancora si crede che la classe operaia debba, almeno per un semplice ragionamento quantitativo, diventare classe dirigente. Una consistente parte di antropologi coltiva ancora l’idea di una rifondazione, in chiave marxista, del concetto di cultura a partire dall’originale gramsciana via italiana al socialismo (Gramsci, 1971; Cirese, 1973; 1976).
In questo quadro generale, che non faceva ancora intravedere variazioni di senso della nuova società che si veniva fondando, si colloca il lavoro antropologicamente centrale di Ermanno Olmi. Nel 1978 firma L’Albero degli zoccoli, un esemplare film sulla condizione tradizionale del mondo contadino, che appare a prima vista fuori da ogni linea culturale egemonica del momento, ma che si impone subito per la sua forte provocazione ideale. Quel mondo che pensavamo di avere tutti abbandonato, che non era utile né ai fini cui tende il capitalismo perché considerato marginale allo sviluppo economico della società, né a quelli marxisti, perché espressione di una cultura subalterna, priva di una razionale visione politica del mondo utile per un’alleanza rivoluzionaria, ritorna ad essere un fondamentale della società italiana. In questo orizzonte si colloca anche il già consunto pensiero sessantottino dalle tragiche derive di fuoco, che l’utopica e non democratica ragione del “vietato vietare” non comprendeva. Emblematica, a tale proposito, è la presuntuosa riflessione politica riguardante questo film, condotta da Alberto Moravia, che riconosce nel cavallo imbizzarrito l’unica forma di ribellione, “l’unico a ribellarsi alla prepotenza dei padroni”, evidenziando come il contadino non sia partecipe del suo destino, di un progetto collettivo di riscatto, che persino l’animale sembra possedere (Olmi, 2013b, p. 36). Una critica che, giustamente Olmi, rinvia in modo icastico al mittente, sostenendo che la ribellione “ancor meno dei contadini” appartiene a “certi intellettuali a cui fa comodo avere un padrone” (Olmi, 2013b, p. 36).
Era ancora la datità ideologica che non permetteva di leggere le novità storiche che la proposta di Olmi conteneva. L’albero degli zoccoli è un capolavoro epico e, nel contempo, sublime affresco poetico contadino, che ci porta a prendere coscienza di un umanesimo appena trascorso e per molti versi ancora vivo nei nostri percorsi cognitivi di uomini della complessità. I gesti e le parole, l’omerica oralità che scandiscono i ritmi della narrazione, caratterizzati da un confronto non solo sincretico tra un precristiano magismo contadino, una religiosità popolare e la Chiesa ufficiale, sono un richiamo di un cattolico scomodo, a volte eretico, alla coscienza del mondo del prezzo pagato dalle campagne della tradizione.
Ma non è solo in questo percorso di antropologia storica, di filologia della tradizione, che Olmi sembra recuperare il pensiero gramsciano in chiave religiosa. La sua maturazione coincide con quella di Nuto Revelli. Negli anni in cui s’irride il mondo contadino, Revelli conduce, infatti, la più approfondita indagine su questa cultura in estinzione. Il mondo dei vinti è l’emblematico titolo di un ampio patrimonio autobiografico raccolto nel mondo rurale cuneese (Revelli, 1977). Dieci anni dopo l’autore pubblica un’altrettanto importante ricerca sulla condizione femminile nelle campagne della tradizione (Revelli, 1985). Un patrimonio culturale prezioso, unico e irripetibile, oggi che anche l’antropologia accademica comincia a riconosce al ricercatore cuneese ciò che non gli ha riconosciuto in vita. Con Revelli, con Pier Paolo Pasolini (1955), con Mario Rigoni Stern (1953; Olmi, Rigoni Stern, 2008), per citare alcuni tra i pochi che avevano intuito allora il futuro cambiamento, Olmi è parte della sparuta pattuglia che da un lato, intelligentemente, anticipa una tendenza che oggi possiamo considerare epocale, dall’altro contribuisce a determinare, sostanziare il farsi di questo indirizzo di senso, recuperando all’umanità un passato che, se cancellato, relegato all’oblio, costituirebbe una perdita incalcolabile, perché le nuove generazioni non avrebbero memoria su cui fondare il loro evolutivo futuro. Infatti, sostiene coraggiosamente Olmi: “L’unica, vera, insostituibile civiltà che si può definire compiuta è quella contadina” (2013a, p. 212).
In questo quadro di recupero e analisi critica della cultura dell’oralità, che prevede una nuova alleanza “tra noi e la zolla” (Olmi, 2013a, p. 243), un ulteriore traguardo scientifico Olmi lo raggiunge con il film Centochiodi (2007) che rappresenta la continuità ideale e sostanziale de L’albero degli zoccoli. Se nel primo lavoro Olmi riporta nell’alveo della storia una cultura cui era stata negata la voce, in Centochiodi il regista continua ad indagare in modo compiuto uno degli snodi centrali dell’evoluzione dell’umanità. Il giovane professore che cerca, sotto la guida di un anziano sacerdote, le ragioni del mondo in una preziosa biblioteca che conserva le scritture più antiche, quelle che dovrebbero attestare la storicità, l’autorevolezza, la verità dei saperi fondati sulla solidità di supporti stabili, affronta il sacro dissidio tra l’oralità e la scrittura (Artoni, 2005). Una notte inchioda i manoscritti, le pergamene, i codici, le miniature, perché ritiene che non possa esistere una mediazione tra queste due categorie della conoscenza e fa perdere le proprie tracce. Il giovane troverà rifugio oltre l’argine che segna lo scorrere spazio-temporale del Po. Qui abita un popolo di pendolari della vita, che ha scelto questo luogo altro, in cui i gesti e le parole, l’oralità sopravvivono in un confronto oppositivo con il mondo della scrittura che ha relegato lo scorrere delle acque tra una striscia di natura che si rifiuta di essere addomesticata. Il giovane partecipa alle proteste di questo popolo, che vede invaso l’ultimo spazio di tradizione e fonda l’opposizione collettiva non in un quadro normativo che attiene alla scrittura, ma in un contesto di formularità, di folklore giuridico che sa ancora magistralmente esprimere. Il film vede la luce nel 2007, quando la nostra Università sta preparando il viaggio Alla ricerca del Grande Fiume. Il convincente, maturo quadro teorico proposto da Olmi diventa un prezioso quanto rigoroso orizzonte interpretativo per guidare la nostra avventura didattica e scientifica lungo tutto il corso del Po (Grimaldi, 2007; Leone, 2008).
La lettura critica del sacro dissidio condotta da Olmi, riguardante l’oralità e la scrittura che attiene a un grande sostrato della società contemporanea, non si ferma su questa trincea avanzata per una comprensione critica dell’agire umano, ma trasporta il dibattito all’interno della Chiesa. D’altra parte, la storia del cristianesimo è percorsa fin dalle origini da questo dibattito. Gesù non ha lasciato una sola parola scritta. La sua oralità si fa scrittura attraverso gli evangelisti e questa complessa operazione di stabilità porta a separare i sacri testi canonici da quelli apocrifi che dell’oralità sono indubbia espressione.
Olmi comprende che la Chiesa, se vuole essere dalla parte degli ultimi, deve spogliarsi anche dei suoi simboli che ne hanno scandito la storia, che ne hanno definito la sua immutabilità mitica e rituale. È quello che accade nell’ultimo film in cui una chiesa oramai spogliata dei suoi simboli, perché rottamata da una devastante secolarizzazione, diventa rifugio di migranti che in quel luogo sacro, ormai spogliato delle tante egemonie che hanno segnato la sua storia, trovano un rifugio sicuro e un comune lessico che allude ad un sacro universale. “Un evento cristico”, come suggerisce Vito Mancuso, “mediante cui Olmi ha mostrato ancora una volta la potenzialità di relazione contenuta nell’ideale cristiano” (Mancuso, 2012, p. 14).
La lettura critica che abbiamo condotto sul percorso di vita di Olmi è solo una parte del lavoro complessivo. Olmi è figlio del suo tempo. Bambino, vive la pendolarità sociale e culturale tra città e campagna (Olmi, 2004). Nella campagna della nonna, che gli faceva togliere le scarpe che portava in città, perché della terra che produce bisogna avere rispetto, e lo porta ad imparare il mestiere del fornaio, i ritmi costitutivi dell’alimentazione, si forma l’uomo che sarà. Una formazione fabrile, che guiderà il giovane Olmi a non riconoscersi sui banchi del liceo scientifico, perché si annoiava, e ad abbandonare la scuola per la vita, ad abbandonare la scrittura per quel nuovo linguaggio prossimo all’oralità che è il cinema. Alla Edison farà le prime esperienze di cinema industriale, un percorso di conoscenza e d’interpretazione della realtà della fabbrica che si esprime in un significativo quadro etnografico e antropologico alla Flaherty. Dei suoi personaggi, partecipi del nuovo sogno industriale, Olmi traccia storie di vita, costruisce autobiografie, rileva le inquietudini e i sacrifici che questo nuovo tempo post-contadino richiede. Un modello pedagogico filmico, una non ancora compiuta e sperimentata tecnica linguistica succedanea al processo di trasmissione tra generazioni che i nuovi tempi ne stanno già sottolineando la crisi. “Olmi filma in un momento di eccezionale equilibrio tra sistemi, durante un passaggio epocale, quando l’industria mantiene ancora un sostanziale equilibrio con la natura” come sostiene Benedetta Tobagi (2008, p. 10).
In questo complesso percorso di sperimentazione cinematografica Ermanno Olmi si impone anche quale maestro di antropologia visiva. Credo che se sorprendentemente oggi tanti giovani utilizzano la telecamera per interpretare antropologicamente il mondo è anche a lui che dobbiamo essere debitori. Per quanto mi riguarda, ho cominciato ad occuparmi del film etnografico proprio in quegli anni. È a partire da L’albero degli zoccoli che mi sentii legittimato a ri-cercare un amico che ancora sperava di fare la rivoluzione con il videotape per convincerlo dell’urgenza antropologica di salvare i gesti e le parole, l’oralità di un mondo che l’abbandono delle campagne aveva reso indifferibile.
L’antropologia visiva in Olmi trascorre dalle prime esperienze alla Edison per giungere al cinema narrativo, di finzione, per poi esprimersi in documentazioni filmiche originali che comunicano un’intensa espressività poetica, che esalta l’autorevole rigore scientifico del tema trattato come nel video Terra Madre (Olmi, 2010b). Il nuovo linguaggio di Slow Food è anche il frutto del percorso ideale di Ermanno Olmi con Carlo Petrini in una inesausta ricerca di ri-costruzioni di memorie del “buono, pulito e giusto”, indispensabili per progettare il futuro (Petrini, 2005; 2009). Un futuro contadino in cui ci sta anche l’epico sforzo della gente della montagna nel coltivare le vigne più estreme (Olmi, 2010a). È in questo quadro che non possiamo trascurare la sobria lettura filmica che Olmi fa del cibo, lontano dalle mode del presente, dall’aggressività gastronomica che la comunicazione quotidianamente ci impone. E allo stesso modo, lontana dal fordismo alimentare dell’industria, che “non obbedisce alle leggi della natura ma dispone di procedure come le serre che fanno a comando, più volte l’anno, primavere artificiali” (2013b, p. 79).
Quella di Olmi è una gastronomia ancora del fuoco selvaggio, del pressappoco, dei resti, un’alimentazione povera che ha generato la ricca cultura del cibo del presente. Nella montagna occitana cuneese il pasto contadino veniva chiamato: “La passà dij cuciar”, il trapasso dei cucchiai, metafora di un paesaggio sonoro gastronomico che annunciava la morte, la sconfitta della fame, un problema esistenziale che tutti i giorni si doveva vincere. Mangiare era il suono del trapasso della fame. Le donne contadine ogni giorno dovevano, con drammatica formularità, “mettere insieme la fame con la sete”. I grandi cuochi, che oggi sembrano imporre nuove forme di intellettualità, sono debitori al mondo contadino che si è confrontato quotidianamente con la fame, esprimendo una gastronomica creatività da necessità; su questa malora alimentare si fondano soprattutto le innovative ragioni alimentari del presente. Un presente gastronomico in cui molte volte “abbiamo barattato gli affetti con la ricchezza. Stiamo recitando come nelle pubblicità, dove tutti hanno le medesime facce da merendine” (Olmi, 2013a, p. 104).
L’uccisione del maiale ne L’albero degli zoccoli è una pagina di post-neorealismo etnografico straordinario. Il maiale, che rappresenta la riserva alimentare del mondo contadino, soprattutto quella che deve permettere la pratica del tempo di Carnevale prima della carestia quaresimale, viene interpretato con un naturalismo straordinario, una pagina di etnografia visiva fondamentale che, in un gesto, disvela anche le ragioni per cui la carne del maiale, che altre religioni considerano impura, sia nel nostro mondo un alimento particolarmente gradito. La donna di casa, che ha nutrito nel corso dell’anno l’animale, interviene con un gesto di dolcezza femminile che lo addomestica alla morte del norcino. Un segno inequivocabile della nostra cultura che, attraverso una complessa selva di simboli, è riuscita a fare dell’impura carne del maiale un cibo puro.
Ermanno Olmi maestro di cinema e di vita dunque, come avevamo detto all’inizio di questo intervento. Uomo a cavaliere di due epoche oppositive, che ancora cerca le ragioni logiche e affettive che definiscono il processo di umanità per cui da sempre è impegnato. Una ricerca fruttuosa, raccolto di una stagionale semina, fondata sulla speranza del ritorno incessante delle primavere. E dalle generazioni che trascorrono Olmi si attende fiducioso nuove stagioni: “e di primavera in primavera si afferma una nuova idea di vita. C’è questo ripetersi mai uguale degli accadimenti naturali che ha molte variabili” (2013b, p. 79). E alla stessa Chiesa Olmi chiede di aprirsi alla sua primavera, a non fermare il risveglio della natura (2013b, p. 79).
In estrema sintesi egli cerca di coniugare il tempo della tradizione con quello della modernità. La sintesi felice di questo percorso di vita lo porta a riconoscere che nei suoi contadini è possibile trovare un percorso di coscienza e di verità che si fonda su una tradizionale visione olistica del mondo. La donna contadina, che nutre la famiglia e nel contempo la cura, la veste e la educa, ricorre ad un’empirica metodologia olistica di vita che solo ora le scienze stanno ri-trovando, alla ricerca di un olismo critico che ri-ponga l’uomo nelle sue forme umane e divine al centro della conoscenza.
Una conoscenza che lo porta a comprendere che l’uomo del domani non può che essere la sintesi armonica dell’uomo del passato e del presente. Un uomo che utilizza con sapienza i mezzi che l’intelligenza contemporanea mette a disposizione e, nel contempo, recupera l’intrinseca valorialità dell’olistica saggezza contadina.
Olmi vuole salvare, come fine ultimo per l’umanità, il tempo circolare dell’eterno ritorno, i ritmi del sacro, scansioni costitutive del nostro vivere non solo eccezionale ma quotidiano. La sua vita è un percorso critico volto a esternalizzare, con la cautela del saggio che non si lascia incantare dalle mode, la memoria che nel mondo contadino tradizionale era individuale e collettiva, ovverossia mente e comunità: “Solo quando sono affidate alla mente dell’uomo, le parole si manterranno vive poiché è l’uomo che può richiamarle in vita” (Olmi, 2013a, p. 201). Questa forma di resistenza affettiva al vivere strumentale dell’uomo della complessità sociale che, ponendo stoltamente sempre più fuori di sé la memoria, si priva di patrimoni di sapere che, se non sono parte attiva del cervello, tendono a depotenziare la coscienza. “Una definizione di senso comune equipara la coscienza alla vita mentale interiore. La coscienza inizia quando ci svegliamo al mattino e continua per l’arco della giornata, fino a quando cadiamo in un sonno senza sogni” (Koch, 2012, pp. 43-44). Al di là di questa proposizione, Cristof Koch, che con Francis Crich ha lavorato in modo originale sulla coscienza, evidenzia la difficoltà che oggi ha la scienza di comprendere questo nostro fondamentale tratto di umanità.
“Capire la base materiale della coscienza significa capire profondamente come queste reti a maglie strette, costituite da milioni di cellule nervose eterogenee, tessono l’arazzo della vita mentale. Per visualizzare la sbalorditiva complessità del cervello, pensate ai documentari naturalistici dove un aeroplano monomotore coglie l’immensità dell’Amazzonia volando per ore sopra la giungla. In questa foresta pluviale ci sono circa tanti alberi quanti sono i neuroni del nostro cervello (un’affermazione che non sarà vera ancora per molto se continueremo a disboscare la foresta a questo ritmo). La diversità morfologica degli alberi, le loro radici distinte e le foglie coperte di rampicanti e di esseri striscianti è comparabile a quella delle cellule nervose. Rifletteteci: il nostro cervello paragonato all’intera foresta pluviale amazzonica!” (Koch, 2012, p. 159). Questa esemplificazione visiva della coscienza, che origina dall’affascinate metafora amazzonica, è fortemente cogente al percorso di vita di Olmi, di documentarista di uomini e di nature quali sintesi di coscienza. Il rinvio ad un mondo la cui salvezza rappresenta anche l’espressione più alta del nostro comune intendere della sostenibilità del mondo.
Se il presente sembra essere sempre più l’espressione di una coscienza labile, se le ragioni del nostro essere al mondo le troviamo per comodità e insipienza soprattutto fuori di noi, nelle memorie artificiali che ci sono esterne e a volte ostili, comprendiamo quanto importante sia il percorso di vita di Ermanno Olmi e quanto il suo ancora giovane progetto di esistenza possa rappresentare una coscienza collettiva e inclusiva di cui possiamo anche noi essere attori partecipi. Radici di altruismo, quelle di Olmi, “che il terriccio dei giorni ha continuato a nutrire. Poi da cosa nasce cosa, e anche i giorni futuri germoglieranno su questi ceppi” come ci suggerisce Cesare Pavese (1946, p. 144).
In definitiva, un’indispensabile, empirica coscienza epistemologica del mondo, quella di Olmi, di un inesausto farsi di umanità che ci può insegnare – come solo sanno fare i vecchi che sanno invecchiare – il “finire di nascere” (Saramago, 2006, p. 4).
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