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Il Giro del Mondo in 80 Orti: dall’orticoltura all’ortocultura

Circa 13.000 anni fa l’umanità compì un passo decisivo nel suo percorso di sviluppo addomesticando le prime specie vegetali e animali e sancendo il passaggio fondamentale da cacciatori raccoglitori ad agricoltori, allevatori e pastori (Diamond, 2002). Da allora e grossomodo fino alla rivoluzione industriale, l’agricoltura, la silvicoltura e la zootecnia (il settore primario dell’economia, escludendo quindi le attività estrattive) hanno garantito agli abitanti del pianeta le tre effe, food, fiber and fuel, che rispondono ai bisogni primari dell’esistenza del genere umano. L’orticoltura si è concentrata in particolare sul food (in alcuni casi anche sull’health nella produzione di piante medicinali) ed ha assunto nel corso dei secoli un ruolo particolare, ovvero la produzione di cibo fresco, e quindi salutare, ricco di micronutrienti, nelle prossimità delle abitazioni. Nell’orto domestico e comunitario si sintetizza la funzione di food sovereignty e di food security che in altri rami del’agricoltura non si è riusciti a risolvere.

Si legge nella parte del sito della Fao dedicato alla sicurezza alimentare delle famiglie: “Uno dei modi più semplici di assicurare l’accesso  ad un cibo salubre che contiene apporti adeguati di micro e macro nutrienti è produrre nell’orto domestico differenti tipologie di alimenti” (Fao, 2013). Sempre nel medesimo documento si legge che l’orto domestico sostiene la scurezza alimentare attraverso l’accesso diretto ad una gamma di alimenti ricchi dal punto di vista nutrizionale, attraverso l’aumento del potere d’acquisto derivante dal risparmio sulla lista della spesa alimentare  e dal reddito derivante dalla vendita del surplus produttivo ed infine attraverso la presenza di una riserva alimentare da utilizzare nei periodi di “magra”.

Ecco perché l’orticoltura domestica, l’homegardening, ha ricevuto un notevole interesse da parte delle Ong e del mondo accademico, che si occupano di sviluppo rurale e di paesi in via di sviluppo.

Lo studio dell’Ifpri “Millions Fed: Proven Successes in Agricultural Development” ha dimostrato come attraverso l’utilizzo, di orti domestici e di comunità, micro allevamenti ed educazione alimentare sia possibile migliorare la sicurezza alimentare da un punto di vista nutrizionale per 5.000.000 di persone nel subcontinente indiano (Iannotti et al., 2009). L’intervento promosso dall’Helen Keller International ha riguardato in particolari le deficienze in vitamina A (la stessa che si propone di alleviare la pianta Ogm cosiddetta golden rice), ferro e zinco delle popolazioni del Bangladesh.

Famoso è il caso di Cuba. L’indomani del crollo dell’Unione Sovietica Cuba si trovò in una pesante situazione di penuria alimentare, aggravata dal persistente embargo imposto dagli Usa, che fu risolta grazie al massiccio utilizzo da parte della popolazione di orti domestici e comunitari. L’Havana vide nascere centinaia di orti, potremmo dire una riedizione degli orti di guerra, che fornirono una riserva alimentare nutrizionalmente non banale e in un certo senso ad accesso quasi immediato. Esclusi quelli domestici sono stati censiti 7998 orti nell’area di l’Havana pari a 15.092 ettari (Altieri, 1999).

L’homegardening è un’importante risorsa n tutti i paesi in via di sviluppo, ma trova soprattutto in Africa un luogo in cui bisognerebbe implementare maggiormente questa pratica. Infatti, sebbene  oggi in media ciascun abitanti del pianeta ha a disposizione un 25% in più di cibo rispetto al 1960, se guardiamo al solo dato dell’Africa, ci accorgiamo che ogni abitante di questo continente ha invece un 10% in meno rispetto al medesimo anno di riferimento. La sicurezza alimentare africana è diminuita nel tempo, nonostante (qualcuno direbbe a causa del fatto che) gli scambi internazionali siano stati liberalizzati soprattutto dopo l’Uruguay Round e l’Accordo di Marrakech con la nascita del Wto. Una tempesta perfetta di incremento della popolazione, diminuzione delle piogge e della fertilità del suolo e aumento dei prezzi ha consentito all’Africa di scivolare lungo il piano inclinato della fame e della malnutrizione. Anche i cambiamenti climatici hanno contribuito, facendo perdere diversi raccolti a causa dell’aumento di frequenza di siccità e inondazioni.

Gardenafrica ad esempio, una Ong  britannica, ha tra i suoi scopi la diffusione dell’orticoltura familiare per coltivare cibo salutare, conservare specie vegetali, gestire in modo appropriato le risorse naturali e generare reddito per le famiglie. Food and Trees for Africa (FTFA) è un’altra ong che punta invece sulla permacoltura per combattere l’impoverimento della fertilità del terreno.

1000 orti in Africa è invece il progetto di Slow Food che prevede la costruzione ed il funzionamento di un migliaio (di cui attualmente 887 adottate) di superficie orticole agro ecologiche destinate a comunità di vario genere (scuole in primis). Spesso gli orti sono all’interno di scuole di ogni grado perché hanno anche una fondamentale funzione educativa e di imprinting: insegnare alle giovani generazioni che produrre il proprio cibo è fondamentale per se, per la comunità, per l’ambiente (Galluzzi et al., 2010). E’ in sostanza un buon esempio bottom-up dell’applicazione del principio dello sviluppo sostenibile “ lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri “ (WCED, 1987).

Ma se è riconosciuto che l’orticoltura domestica ha tutti questi risvolti positivi, perché ancora non è diffusa in ogni angolo del pianeta e c’è bisogno di Ong che grazie a finanziamenti dei paesi sviluppati  riescono a portare avanti progetti di homegardenization?

Mitchell e Handstad (2004) ne sottolineano diversi. Ad esempio non è sempre disponibile una sufficiente quantità di terra per le famiglie più povere, che sono quelle più esposte all’insicurezza alimentare. Sull’isola di Java ad esempio il 4% delle famiglie povere non dispone del cosiddetto pekarangan l’orto domestico. In generale poi la difficoltà ad avere diritti di proprietà certi influisce negativamente sulla possibilità di approntare dei miglioramenti fondiari anche minimi, come ad esempio il drenaggio dell’acqua o l’impianto di una qualche specie arborea, che migliorerebbero le rese degli orti. Anche la mancanza d’acqua è un input limitante per la diffusione dell’orticultura domestica: il trasporto dell’acqua e l’irrigazione manuale spesso sono le attività per cui si spende più tempo nella cura degli orti. Non a caso uno degli strumenti del Millenium Villages Project è proprio il kit per la raccolta, stoccaggio e distribuzione dell’acqua piovana. La mancanza di capitale è un altro fattore limitante e specialmente la carenza di fertilizzante. Per questo motivo, pratiche agricole che sostituiscono il lavoro umano al capitale (la tecnica del sovescio ad esempio)  oppure corsi di formazione per la produzione di fertilizzanti naturali come il compost sono molto interessanti, perché vanno nella direzione di garantire una migliore produzione pur in condizioni di mancanza di risorse monetarie. Non va dimenticato anche un problema di ordine socioculturale: l’attività agricola è considerata al punto più basso della scala sociale anche nei paesi meno avanzati e  non è raro sentirsi dire “un contadino non trova neanche moglie!”. Occorre inoltre sottolineare, come spesso accade nelle situazioni di povertà, che la mancanza di informazioni è fondamentale; in questo caso parliamo di mancanza di informazioni sui veri bisogni nutritivi delle persone, in particolare dei bambini. Le madri spesso le uniche responsabili dell’alimentazione dei loro figli ed hanno bisogno di essere informate sulle caratteristiche positive che i micro e macro nutrienti delle produzioni orticole hanno sullo sviluppo dei bambini, perché questo può essere lo stimolo per una maggior diffusione familiare e comunitaria dell’orticoltura. Un ultimo problema riguarda invece le istituzioni perché spesso manca le poche risorse per la formazione e l’assistenza tecnica sono rivolte all’agricoltura a pieno campo per la produzioni di cash crops, dimenticando l‘orticoltura domestica, per il soddisfacimento della food security familiare.

Tanti problemi, tanti successi, tante sfide per l’orticoltura domestica: il prefisso italiano orto (ortodossia ad esempio) non deriva dal latino hortus (giardino coltivato) ma da ὀρϑός  che in greco significa diritto, corretto, giusto e allora potremmo concludere affermando che, quando l’orticoltura rappresenta uno dei metodi corretti, giusti, una specie di retta via per risolvere l’insicurezza alimentare delle periferie esistenziali del mondo, cambia nome e diventa ortocultura, la giusta cultura per cambiare il mondo.

 

Bibliografia

  • Altieri M.,  Companioni N., Canizares K., Murphy C., Rosset P., Bourque M., Nichoolls C. (1999) The greening of the “barrios”: Urban agriculture for food security in Cuba, Agriculture and Human Values, 16, 131-140.
  • Diamond, J. 2002. Evolution, consequences, and future of plant and animal domestication. Nature 418 (August 8): 700–707. (link to http://www.nature.com/nature/journal/v418/n6898/full/nature01019.html)
  • Fao (2013) Improving Nutrition through Home Gardening (available at: http://www.fao.org/ag/agn/nutrition/household_gardens_en.stm)
  • Galluzzi G., Eyazaguirre P., Negri V. (2010) Home gardens: neglected hotspots of agro-biodiversity and cultural diversity, Biodiverity Conservation 19, 3635-3654
  • Iannotti L., Cunningham K., Ruel M. (2009) Improving Diet Quality and Micronutrient Nutrition. Homestead Food Production in Bangladesh. Ifpri, Washington.
  • Mitchell R., Hanstad T. (2004) Small homegarden plots and sustainable livelihoods for the poor, LSP Working Paper 11, FAO. (available at http://www.fao.org/docrep/007/j2545e/j2545e00.htm#Contents)
  • WCED (1987) Our common future United Nations

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