Quanti sono nel mondo i pastori, che seguendo le proprie greggi o i propri armenti, perché nomadi o perché impegnati nella transumanza, si muovono ogni anno? E’ difficile stabilirlo ma una prima stima potrebbe portarci a definire in 100 milioni di individui i cosiddetti allevatori landless (Fao, 2003), cioè i veri pastori. A questo numero occorre aggiungere circa 200 milioni di persone coinvolte nell’allevamento, spesso di piccoli ruminanti, nelle mixed farms, per arrivare infine a circa 675 milioni di persone, per cui almeno una parte del proprio reddito, o del proprio sostentamento, dipende dal bestiame. Ognuno ha la propria idea di pastorizia, ma se volessimo trovare una definizione socioeconomica abbastanza condivisa, rifacendoci a Swift (1988) potremmo dire che il sistema di produzione pastorale è quello in cui almeno il 50% del reddito lordo familiare deriva dalla pastorizia e dalle sue attività collegate; nei casi in cui il livello di sussistenza è particolarmente elevato si fa riferimento ai livelli di autoconsumo dei prodotti aziendali e si afferma che il sistema pastorale è quello che fornisce più del 15% del fabbisogno energetico familiare attraverso il latte e i lattiero-caseari prodotti in azienda. Ci sono altre definizioni come quella ad esempio adottata in Marocco, per cui la pastorizia viene definita come il sistema di produzione zootecnica in cui il pascolo rappresenta più del 50% dell’alimentazione del bestiame (Benlekhal, 2004).
Il pastore è una figura che in Europa è legata quasi alla mitologia, con continui riferimenti nella Bibbia e nei miti greci, ma la realtà è invece un esercito di uomini e donne sottoposti a dure condizioni di vita e spesso sottoposti nei paesi in via di sviluppo a notevoli rischi di vedere ridotto drasticamente il proprio accesso al cibo, a causa soprattutto delle siccità e delle malattie, che decimano la più importante fonte del loro reddito, il bestiame appunto (Fao, 2003).
Il pastoralismo rappresenta una delle forme più diffuse di attività economica soprattutto nelle zone aride ed è frutto di millenari adattamenti alle difficoltà climatiche e ambientali delle aree in cui si è sviluppato. Spesso la pastorizia è stata considerata come un’attività arcaica, senza futuro, invece ultimamente si è posta la questione di quale sia il reale valore dei sistemi agropastorali in se e per la società tutta. La parola chiave per comprendere meglio tale valore è il Total economic value (MacGregor and Hesse, 2006): questo approccio permette di aggiungere, ai valori monetari di mercato derivanti dalla vendita di carne, latte e i vari sottoprodotti (si pensi solo alla lana o al cuoio), tutta una serie di esternalità positive per il territorio e la società. Per quanto riguarda i beni intangibili ed i servizi congiunti alla pastorizia, un elenco sommario potrebbe contenere i seguenti items: generazione di occupazione (anche per categorie più fragili come giovani e donne), fornitura di mezzi di trasporto, conoscenza e abilità derivanti dalla pratica dell’allevamento del bestiame, conoscenza e abilità derivanti dalla gestione ambientale delle zone aride (WISP, 2006). LA pastorizia influenza anche altre attività economiche, che beneficiano di un effetto sinergico: fornitura di input per il turismo (il paesaggio ad esempio) e per l’agricoltura (letame, traino e trasporto), produzione di altri output provenienti dalle medesime zone aride come la gomma arabica, flussi monetari aggiuntivi (risparmi, tasse e tributi) derivanti dai redditi generati dalla pastorizia in grado di alimentare il moltiplicatore keynesiano. In più la pastorizia si inserisce anche nella gestione ecologica dell’ambiente (ricircolo dei nutrienti, mantenimento di colture in grado di sequestrare di anidride carbonica, mantenimento della biodiversità), e in territori economicamente marginali rappresenta un elemento di vitalità in quanto fonte di domanda (input agricoli, assicurazioni etc.). Da ultimo in molti casi la pastorizia è un patrimonio di valori socio culturali condivisi come i saperi tradizionali (WISP, 2006). L’IIED ha recentemente prodotto un interessante studio dove si afferma che in realtà, sebbene la comunità internazionale preferisca finanziare progetti per un agricoltura irrigata per la produzione di cash crops come il cotone in realtà la profittabilità maggiore si ottiene proprio, nel caso della Awash Valley, con la pastorizia (Behnke et al., 2013)
Certo i problemi non mancano. Capita purtroppo che l’attività dei pastori sia ostacolata e la coabitazione non sia sempre così pacifica specialmente quando le condizioni ambientali esasperano la competizione per le risorse naturali. Spesso poi i servizi, ad esempio istruzione e sanità, nelle zone aride o montuose, dove di solito vivono i pastori , sono più carenti. Alcune Ong sostengono che ad esempio in Kenya il tasso di alfabetizzazione delle aree a prevalenza pastorale è pari al 32,3% contro un dato medio nazionale del 79%. I tassi di iscrizione scolastica sono il 57,6% contro il 79%, mentre incredibilmente i tassi di copertura vaccinale scendono dal 51,5% medio nazionale al 6,4% delle aree pastorali. In Etiopia non va diversamente. L’iscrizione a scuola passa dal 95% medio nazionale al 25,5% delle aree pastorali e la copertura vaccinale dal 54% al 14%
Pur tra mille difficoltà, i pastori sono tra gli attori fondamentali delle produzioni lattiero casearie di tutto il mondo. A questo punto vorremmo spendere qualche parola sulla filiera lattierocasearia dei paesi in via di sviluppo. Non interessa soltanto i pastori, ma si allarga anche a tutti gli agricoltori delle mixed farms. In questi giorni, la manifestazione Cheese a Bra ci ha fatto apprezzare il top della produzione mondiale, ma spesso i formaggi e i latti fermentati nel mondo non raggiungono le tavole degli europei, ma sono consumati dalla famiglia del produttore o, al più, venduti al mercato a pochi chilometri di distanza
Secondo i dati della Fao (Bennett et al., 2006), gli attori della filiera casearia nei paesi in via di sviluppo sono soprattutto i piccoli produttori, che rappresentano circa l’80% delle quantità prodotte. Piccoli produttori è un termine abbastanza elastico; in esso, secondo la Fao, rientrano gli allevatori del Centro America con una media di 25 bovini, i risicoltori del Punjab, nelle cui aziende si trovano in media 10 capi bufalini, ma anche gli allevatori etiopi degli Altopiani con una o due vacche a testa, per finire con i pastori del Sahel che hanno greggi inferiori ai 100 capi. I punti di forza di questo sistema di micro imprese risiede nei bassi costi di produzione grazie al lavoro prettamente familiare, lo scarso indebitamento e i limitati rischi di liquidità, e la relativa resilienza rispetto agli shock dei prezzi degli input agropastorali, mangime in primis.
I punti deboli risiedono nella scarsa accessibilità ai servizi (la sanità, ma anche la formazione professionale o il credito), ed il limitato accesso al mercato, sia per i prodotti in uscita che per quello degli input. La vitalità e la profittabilità di queste imprese dipende dai costi di produzione e dall’efficienza della catena a valle della fase produttiva, quindi piccoli caseifici e/o intermediari. E’ molto interessante un dato che riguarda l’occupazione: secondo la Fao nelle microfilere locali si possono generare dai 4 ai 17 posti di lavoro ogni 100 litri di latte raccolto, trasformato e venduto, a patto che ogni fase della filiera sia efficiente e riesca a vendere a prezzi remunerativi i propri output (FAO/ILRI, 2004).
Da queste poche informazioni penso che si possa inferire che la pastorizia è una eredità che ci viene dal passato e come ogni eredità va saputa valorizzare, apprezzare e soprattutto compresa. Senza la pastorizia ettari ed ettari di zone aride resterebbe senza gestione e presenza umana, così come anche le montagne perderebbero attività economiche e di presidio dell’ambiente. La coabitazione non è semplice, la storia di Caino ed Abele è lì a dimostrarlo, ma sempre più ci accorgiamo che il progresso del mondo è fatto di innovazione e tradizione insieme, ovvero di tradinnovation e perdere parti di questo processo, e la pastorizia è parte di questo processo, si tradurrebbe in un deficit di valore enorme. In Africa si dice che quando muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca. Potremmo dire che i pastori sono come enciclopedie viventi, con un know how millenario, che non va disperso e che va messo a fattor comune, per trovare proposte di sviluppo sostenibile e credibile, in grado di rispondere alle sfide, che il mondo si appresta a vivere nei prossimi anni.
Bibliografia
- Behnke R. and Kerven C. (2013) Counting the costs: replacing pastoralism with irrigated agriculture in the Awash valley, north-eastern Ethiopia Working Paper n. 4 IECD
- Benlekhal, A. (2004) Les Filieres d’elevage. Diagnostic et Analysede la SItuation Actuelle.
- Bennett A., Lhoste F., Crook J. and Phelan J. (2006) The future of small scale dairying in FAO (2006). Livestock Report 2006, Roma.
- De Jode H. (2009) Modern and mobile. The future of livestock production in Africa’s drylands. London: International Institute for Environment and Development (IIED).
- FAO (2003) The state of food insecurity 2003.
- FAO/ILRI (2004). Employment Generation through Small-Scale Dairy Marketing and Processing: Experiences from Kenya, Bangladesh and Ghana. FAO Animal Production and Health Paper 158.
- MacGregor, J., Hesse, C. (2006) Pastoralism: drylands’ invisible asset? Developing a framework for assessing the value of pastoralism in East Africa. London: International Institute for Environment and Development (IIED).
- Swift, J. (1998). Les Grands Themes du Development Pastoral et le cas de Quelques Pays Africains. FAO/ESH Working Papers on Pastoral and Agro-pastoral Societies, Rome.
- WISP (2006) Global Review of the Economics of Pastoralism accessed on internet