Nel nostro tour gastronomico in Veneto alla scoperta della cucina popolare di questa splendida regione d’Italia, abbiamo fatto tappa a Susegana in provincia di Treviso dove ha sede Borgoluce, un’azienda nata nel 2007 come costola della Collalto, storica azienda vinicola della famiglia dei principi Collalto, la famiglia nobile più antica d’Italia.
Ma oggi non si parla di cibo, bensì di energia, di risparmio e di modelli di riciclo virtuosi nell’agroalimentare, come il biodigestore di Borgoluce: un sistema che trasforma letame e scarti agricoli in energia pulita. Un ciclo virtuoso apprezzato già nei 2013 dallo stesso Carlo Petrini e che noi siamo tornati a visitare.
Ad accoglierci c’è Gabriele Furlanetto, da trentatré anni al servizio della famiglia Collalto e oggi responsabile degli allevamenti e dell’impianto di biogas: “Il biodigestore nasce nel 2010 da un progetto sviluppato a seguito dell’adesione dell’Italia agli accordi di Kyoto. L’obbligo di raggiungere gli obiettivi energetici fissati entro il 2020, ha fatto sì che venissero dati grossi incentivi per questo tipo di progetti”.
Ma cos’è un biodigestore? Possiamo figurarcelo come un grande stomaco, un fermentatore che trasforma in energia prodotti agricoli di scarto, provenienti da allevamenti, secondi raccolti, scarti di lavorazione di grano e mais. Il biodigestore lavora in ambiente anaerobico e ha la capacità, come gli stomaci dei ruminanti di digerire le fibre, i carboidrati strutturati come le cellulose, grazie all’azione di particolari batteri: “Noi lo alimentiamo con tutte le biomasse a nostra disposizione – spiega Furlanetto – abbiamo una superfice agricola di 500 ettari, su metà ci seminiamo mais per alimentazione umana, nell’altra metà frumento, orzo e loietto che maturano tutti entro luglio, dopodiché, invece di lasciare i campi vuoti ci seminiamo seconde colture, specialmente mais o sorgo, che raccogliamo in autunno. Queste non sono buone da mangiare ma sono ottime biomasse”.
Le piante, infatti, sono come dei pannelli solari naturali, che grazie al processo di fotosintesi clorofilliana sintetizzano l’energia del sole e l’accumulano sotto forma di carboidrati. Raccolte e stoccate in silos sotto forma di insilati, sono delle bombe energetiche per i batteri che vivono nell’ambiente anaerobico del biodigestore. Ecco come funziona: “I fermentatori sono 4, due primari e i due gemelli. I primari hanno una capacità di circa 2300 metri cubi e vengono alimentati ogni giorno con circa 400/500 quintali di sostanza mista che comprende il sorgo, l’insilato di mais, raccolti andati male e altri materiali di scarto come le polveri di mais, cereali e farine, residui della lavorazione di prodotti da panificazione provenienti sia dalla nostra azienda che da aziende esterne. Poi ci sono i 200 quintali giornalieri di letame delle nostre 400 bufale: un raschiatore che scorre sul pavimento delle stalle convoglia il letame nelle vasche di raccolta, da qui viene trasferito ai fermentatori primari, sempre pieni. Qui la temperatura media è di 40°. Il letame umido funge da starter per i batteri mesofili che nutrendosi dei carboidrati, dei grassi e delle proteine, producono acido acetico e poi biogas, un mix di anidride carbonica e metano. La sostanza predigerita viene prelevata dal fondo e trasferita ai secondi fermentatori, ancora più grandi, circa 3200 metri cubi. Qui termina la digestione e il materiale di risulta finale, chiamato “digestato”, viene trasferito in vasche di stoccaggio in attesa di essere utilizzato nei campi come fertilizzante. Mentre il gas prodotto viene inviato a un motore a scoppio collegato a un alternatore che genera energia elettrica pronta per essere immessa in rete”. L’intero ciclo dura circa quaranta giorni e non si ferma mai, tranne che per la normale manutenzione.
Un impianto come quello di Borgoluce ha un limite di produzione imposto per legge di 999 kilowatt l’ora (superarlo vorrebbe dire essere una centrale elettrica, non più un’azienda agricola). Calcolando che lavora 8500 ore l’anno, si arriva a quasi a 8500 megawatt l’anno, togliendo circa il 6% per l’autoconsumo, resta energia elettrica per soddisfare il consumo annuale di circa duemila famiglie: “L’energia prodotta non va all’azienda – ci spiega Furlanetto – prima di tutto perché non siamo autorizzati, secondo poi perché non ci conviene, perché l’energia che produciamo è incentivata solo se immessa in rete, quindi preferiamo venderla al mercato per poi ricomprarla. Quella che noi utilizziamo direttamente è l’energia termica prodotta dal motore: durante la combustione del biogas si genera un megawatt di energia elettrica, ma anche un megawatt di energia termica che noi convogliamo nei locali e negli uffici dell’azienda, e ci scaldiamo l’acqua per i servizi”.
Ma quanto rende un impianto di biogas? Il biodigestore è costato 3,8 milioni di euro, moltiplicando 28 centesimi che è il costo unitario del kilowatt per 8 milioni che sono i kilowatt che produce annualmente, abbiamo un ricavo lordo annuo di 2 milioni e duecentoquarantamila euro: “Non è così semplice – chiarisce Gabriele – da questo guadagno bisogna sottrarre la manutenzione dell’impianto, la manodopera, i costi aziendali. Certo noi siamo un caso virtuoso e con questo biodigestore ci guadagniamo, ma solo perché abbiamo una grande azienda che ha molto materiale di scarto quindi a costo zero. Ci sono aziende che coltivano esclusivamente per produrre biogas, ma a quel punto non conviene più, infatti non sono pochi gli impianti di questo tipo in difficoltà”.
In conclusione, il sistema delle biomasse e del biogas sul modello di Borgoluce sembra essere insieme virtuoso e remunerativo: per prima cosa si sottrae gas serra all’ambiente (secondo l’OMS gli allevamenti intensivi sono responsabili del 20% dei gas serra globali) perché il letame non viene lasciato fermentare all’aperto, ma viene subito immagazzinato e utilizzato. Inoltre il biodigestore non consuma l’energia che consumano le centrali elettriche per produrre energia: “Qui abbiamo un rapporto di circa uno a venti – spiega Furlanetto – cioè se con cento litri di gasolio una centrale elettrica produce 1 di energia, con gli stessi cento litri di gasolio impiegati per coltivare e arare i campi per produrre biomassa per il biodigestore, si avrà energia venti volte maggiore a quella spesa per l’intero processo. E questo margine aumenta fino a quaranta a uno, se si aggiungono tutti i prodotti di scarto delle lavorazioni dei cereali che una grande azienda ha”. Insomma il biodigestore è un moltiplicatore di energia.
E si può ancora migliorare: “Puntando alla produzione diretta di metano – conferma il signor Gabriele – saltando cioè il passaggio della trasformazione del biogas in energia elettrica che avviene nel motore a scoppio e che comunque genera dispersione e quindi spreco. Il nostro obbiettivo infatti è produrre biometano da immettere direttamente nella rete, il 100% dell’energia prodotta sarà così venduta. Ad oggi in Italia mancano i permessi, ma una legislazione in merito dovrebbe essere in dirittura d’arrivo e noi siamo pronti a investire”.