Identità Golose 2018

“Applicazione creativa al conviviale” per la culturalizzazione della cucina

Paolo Lopriore, Luca Govoni, una Gallina di Razza Valdarnese Bianca, altri ingredienti e il loro Fattore Umano.

Identità Golose 2018: il Fattore Umano contestualizzato in tutti i contesti a indirizzo gastronomico, il Fattore Umano valorizzato, il Fattore Umano narrato. Il Fattore Umano come leit motiv per il futuro della gastronomia italiana, il Fattore Umano come ingrediente imprescindibile della cucina (più o meno) cucinata e tanto parlata del presente.

(Se vi state chiedendo se esiste una definizione completa di Fattore Umano, mettete il cuore in pace, non c’è. È un qualcosa di concreto e astratto, parlato e agito, vario e variabile. In tutte le sue però declinazioni mantiene una caratteristica: è identitario. )

Il Fattore Umano di Paolo Lopriore

Anche Paolo Lopriore, come i tanti, circa 120, chef internazionali, ha risposto alla chiamata sul palco di Identità Golose 2018, anche Paolo Lopriore ha discusso il proprio Fattore Umano. Paolo ragiona e studia da qualche tempo sulla tavola come oggetto culturale, di scambio e valorizzazione di culture e persone (qualcosa sui suoi pensieri potete leggere qui,  quando fece tappa alle Tavole Accademiche a Pollenzo).

Sul palco di Sala Auditorium ha affrontato un percorso tutto suo per trasmettere il suo obiettivo: la culturalizzazione della cucina. Partendo da una ricetta o meglio da un ingrediente o un prodotto ha ripercorso, didascalicamente e in cooking show, la ricetta pura, con gli annessi codici tecnici e la storia della cucina italiana contemporanea a essa collegata, e che definisce la prima.

Coadiuvato da Giorgio ai fornelli (il suo secondo) e narrato sul palco da Luca Govoni (docente di storia della cucina ad Alma) con ausilio di schemi e slide, ha raccontato il suo Fattore Umano, quel processo della culturalizzazione della cucina italiana nelle scelte dei singoli e in quelle collettive, culturali.

Prima di raccontare la storia della ricetta presentata in sala è opportuno fare una piccola digressione sulle teorie che Paolo Lopriore e Luca Govoni stanno approfondendo dal 2016, in particolare sull’interazione tra i tre elementi principali della scena ristorativa (cucina, sala e tavola) e i suoi attori (cuoco, cameriere e cliente). Perché il Fattore Umano non è strettamente legato a nessuno dei tre, ma è nelle relazioni che essi creano e sviluppano.

Queste relazioni sono processi, pensieri che diventano storia da mangiare, raccontare, vivere e condividere. Il cuoco si lascia ammaliare dalle materie prime; attratto e innamorato inizia a pensarne un’accezione gastronomica che tra pentole e fornelli si traduce in piatto. Ma sarà solo il parere e il confronto con camerieri e clienti a tradurre quel piatto o a definirlo incompreso e a richiederne una diversa elaborazione. Il cliente, destinatario finale dell’atto del mangiare, stimola il lavoro del cuoco e lo indirizza. Però il primo e il secondo comunicano attraverso un terzo, il personale di sala che coinvolge gli uni e convoglia le richieste e i pareri degli altri. Che traduce il cibo da semplice materia a oggetto comunicativo, culturale.

“La cucina è arte applicata che ha a fondamento determinate regole compositive”, scriveva Gualtiero Marchesi, grande maestro di Paolo Lopriore, nel 1988 su La Gola. Queste regole compositive non sono né uniche né imprescindibili, ma sono modalità e gusti che si sono diffusi e localizzati in un territorio. Il rito della cucina non va sottovalutato, alla base della tradizione vi è una combinazione di prodotti associati secondo la loro presenza fisica sul territorio e successivamente accordati in base al gusto. E il gusto è determinato da fattori culturali. Questa piccola introduzione prepara le fondamenti alla dimostrazione in sala di una ricetta di Paolo Lopriore, che come vedrete, è un mezzo per andare oltre la materialità del piatto, rendendolo vettore di cultura.

Quella descritto sul palco di Sala Auditorium da Lopriore e Govoni, più che una portata è un concetto, un racconto condiviso: di un gesto e un gusto rituale, casalingo e goduto. Di un focolare domestico e di incontri tra ingredienti vicini che vengono da lontano.

S’intitola “pane e companatico” e ne vengono suggerite 103 combinazioni (variabili) possibili secondo tradizione. In realtà il pane non c’è ma di esso rimane l’idea centrale: la regola della tavola degli abbinamenti come mescolanza, di prodotti assemblati in funzione del gusto, del territorio, della cultura e in virtù della convivialità. Il pane, prodotto povero simbolo di ricchezza quotidiana, secondo la regola primitiva deve abbondare associato ad altri ingredienti preziosi, in centellinate quantità, quali salumi e formaggi, nell’eccellenza della tradizione popolare. Stesso vale per la pasta che vuole gli intingoli, perle di gusto concentrate e ristrette e la polenta che si assume il pregio delle carni, dei pesci e delle verdure a essa abbinate. Secondo questo concetto un prodotto è di valore se si considera tale e così anche l’abbinamento di un contorno di verdure alla carne con maggior pregio assume altrettanto valore. La regola del ‘pane e companatico’ è applicata nella storia delle cento paste e mille sughi rappresentativa dell’Italia, così come in quella delle centinaia di versioni di risi e pizze.

È con ampliamento culturale e creativo che quello che visto di sfuggita può sembrare un piatto unico scomposto, diventa un’ode alla gallina (in ottavi, vedremo perché) con abbinamenti gustativi, culturali e religiosi.

Storia di una gallina, di un cuoco, di ingredienti e culture

C’era una volta una gallina, razza Valdarnese Bianca, e il suo legame con il territorio con le persone e i riti di quel luogo, ai focolari che ha riempito, le persone che ha unito.

C’era una volta un cuoco che incontrando la suddetta gallina si lasciò colpire dal suo fascino. Percepì nella materia prima la potenzialità gastronomica, gustativa e culturale.

C’è l’incontro in cucina tra i due, insieme a tanti altri ingredienti. Il proseguimento della storia è un timballo di riso con gallina bollita, una sequenza di portate e i racconti abbinati.

Il  rito della gallina bollita delle festività è l’eccellenza della sua rappresentazione conviviale. Paolo Lopriore, scoperto il vantaggio tecnico della cottura in un brodo di centrifugato di sedano che per magia (o per chimica) intenerisce la carne in solo un’ora e mezza, la cuoce a mo’ di bollito, mantenendone vivi i gusti e tenaci le strutture.  Cotta e pronta la gallina viene tagliata rigorosamente in ottavi per distribuirne un egual misura ai commensali: coscia, sovracoscia e petto. La gallina Valdarnese, cucinata, incontra un ingrediente che viene da lontano, il riso, arabo. Un ingrediente diffuso in tutto il globo e che è parte del quotidiano di molte culture. Il riso è un rituale e in Italia il rituale del riso si chiama risotto. I risotti new age tendono a sgrassarsi dei gusti ritenuti in eccesso, ad essere dei risi bolliti conditi che ricordano solo nella malinconia i risotti classici. Quello da cui Lopriore parte è un risotto in senso di risotto, per come il linguaggio comune lo ritiene, per recuperarne non solo il gusto ma anche il gesto e per godere di questo gesto. Tostatura, vino bianco (da tempo scomparso nei risotti haute cuisine, ma che come Lopriore ricorda dona acidità e profumo e ha un valore antico, rituale) sale, cottura con acqua e mantecatura con burro acido (alla mo’ di Marchesi: burro montato con cipolla e vino bianco). È contemporaneo il risotto perché in cottura al brodo si sostituisce l’acqua e si utilizza meno formaggio, in continuità con quanto insegnato dal maestro Marchesi. Ma è risotto, nel gesto e nel rito. E questo messaggio secondo Lopriore dovrebbe passare: di far riferimento alla codifica di un gesto per poi, con la fantasia e lo studio, proporne varianti e aggiunte.

Lo stampo antico scelto per la presentazione, a cassata (o sformato), dona un tocco di antico e ricercato al risotto candido, che non è altro che un risotto alla parmigiana, a timballo.  

Poi si aggiunge una verdura, stagionale, una rapa brasata, a parte. Nuda e tagliata a spicchi, viene immersa in burro fuso e brasata con acqua e poi condita con scorza di arancio candito e un trito di prezzemolo.

Al pane (riso) serve un altro companatico, per approfondire la gallina. Lopriore sta recuperando le salse madri italiane, che danno untuosità ai piatti. L’intingolo per quest’occasione è alle mandorle bruciate, di gusto mediterraneo pieno. Le mandorle sono tostate a 180° per 20 minuti poi con l’aggiunta di burro si frullano che si può anche interpretare come un fondo bruno di mandorle.

Per un po’ di freschezza si fa ricorso al limone candito salato, sotto sale 40 giorni al fresco. È un simbolo della cucina mediterranea e ha il compito di riportare in tavola la cultura berbera della fermentazione. Di quando l’uomo, nomade che doveva affrontare climi ostili, si serviva di tecniche astute per conservare e in qualche modo far rivivere il prodotto nel tempo.  

La freschezza poi arriva anche dal Pepe di Sichuan, in riduzione a freddo. Una spezia liquida, concetto su cui Lopriore sta concentrando una buona parte del lavoro, che condisce con maggior uniformità e armonia. Il pepe, lasciato a mollo in acqua fredda, è passato in estrattore a centrifuga lenta.

Poi ci si allontana un po’ con un concetto etnico simile all’edamame che si mangia in tanti ristoranti cinesi: i baccelli di soia, cotti in pentola con olio, sale, baharat (miscela di spezie della cucina mediorentale), e messi nell’affumicatore da tavolo con segatura di faggio; un acceleratore gustativo.

Il quadro culturale si sta via via completando, dove le mandorle e limone rappresentano il Mediterraneo, il Pepe di Sichuan l’Asia, il baharat il Medio Oriente e la soia ancora l’Asia in un piccolo itinerario sui sapori della Via della Seta.

E accanto alla gallina bollita, ecco una frittata, emblema della gallina. Con uova e frattaglie della stessa gallina (fegato, stomaco e cuore), il suo sangue che coagula nella stessa frazione di tempo delle uova e un pochissimo di burro. Dello spessore di un’omelette, fondente come un uovo strapazzato a cottura bavosa, color sanguinaccio, viene riposta in un ciotolino anch’essa come complemento del pane.

L’armonia gustativa e culturale viene completata con il burro al dragoncello, un burro pomata, omaggio al classicismo, che riflette l’attuale spostamento ideale e ristorativo di Lopriore verso il Nord Italia (ora il suo ristorante è ad Appiano Gentile, Como) e dunque sul burro. Questo, al dragoncello, riprende il pensiero del burro alla maître d’hotel, ma evoluto e realizzato a caldo per fissare la clorofilla del vegetale. Si soffrigge il burro con il dragoncello e un po’ di cipollotto, si passa in estrattore e si monta con frusta e ghiaccio, per apportare l’ossigeno che esalterà ulteriormente l’aroma.

La magia di Paolo Lopriore, per questa volta termina qui. Lascia aperto il pensiero attorno alle alchimie culturali e gustative portate sul palco e al fattore umano come scelta culturale del cuoco. Alla cucina italiana come crogiolo di racconti condivisi che il cuoco deve leggere nelle materie prime e interpretare per creare connessioni semplici e riaggiornamenti di materia e cultura, mediati in tavola dal personale di sala, legato al cuoco e alle dinamiche della cucina e acculturato.

La tavola è cultura, se e solo se le due parti della materia prima, il suo futuro (il piatto) e il suo passato (di scambi e gesti), collidono nel racconto tra parole e gusti, attualizzato e contestualizzato al servizio per esser compreso. La culturalizzazione della cucina italiana è un percorso che trae ispirazione dalla materia, ispirante e che si attua negli e con gli attori della ristorazione. È la materia a essere creativa, ad avere un vissuto da interpretare e ridimensionare a portata di pasto, per essere capita e rivitalizzata.

N.B. La disposizione degli elementi della portata sul tavolo contemporaneamente e da condividere consente al commensale non solo di consumare ogni singolo prodotto, ma anche di sceglierne le combinazioni. Del cliente è l’arte della composizione, metafora di scambio di genti, merci e cultura (come la cucina italiana) che rivive sulla tavola e si celebra sul piatto. Le pietanze prendono vita se il cliente applica loro un moto. In questo modo le pietanze diventano cultura.  

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